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Un vero e proprio viaggio nella memoria compie il preside Renato Risi in due suoi scritti, destinati volutamente a restare inediti e che ho avuto il privilegio di leggere nella prima stesura. In considerazione del loro contenuto ritengo che in caso di pubblicazione il titolo più adeguato e significativo sarebbe: “La casa di via Cavallerizza. Storia bojanese di un bambino, di una famiglia, di un padre”. Pur conoscendo il riserbo di Renato – una persona colta, perbene, discreta, stimata – , spinto dal piacere che mi ha dato la loro lettura, dall’interesse che hanno destato in me le tematiche trattate e dalla freschezza che li caratterizza, dopo averci riflettuto a lungo ho scelto lo stesso di parlarne, trasgredendo in tal modo a un impegno di segno opposto tacitamente assunto. Spero, pertanto, che Renato non me ne voglia.
In essi è narrata la storia di un bambino, di una famiglia, di un padre, ma anche di Bojano, in particolare dagli anni Trenta alla caduta del fascismo, alla fine della Seconda guerra mondiale e al referendum del 1946. Teatro di molti avvenimenti raccontati è la modesta, ma amata, abitazione del terzo e ultimo piano della casa di via Cavallerizza n. 52, dove vive la famiglia Risi, composta dall’intraprendente capofamiglia Antonio, dalla moglie, Bianca, vestale del nido familiare, docile ma solo apparentemente remissiva, e da cinque figli maschi. Qui incomincia il viaggio e nell’effettuarlo Renato ci prende per mano facendoci diventare partecipi dei fatti che a mano a mano descrive, di ciò che ha provato quando si sono verificati e della sua soddisfazione, mista a bisogno, di riviverli in età ormai matura. A coinvolgere sono i ricordi nitidi di una infanzia felice, la vita semplice di una famiglia bojanese in cui le privazioni economiche, proprie del tempo, trovano una compensazione nei saldi valori, nei forti sentimenti, negli affetti e nelle esperienze che legano i loro componenti, nonostante le trepidazioni dovute al rumoreggiare, di differente intensità, della politica.
Di rilievo è la figura del padre, Antonio Risi, che Renato confessa di aver capito fino in fondo soltanto con il trascorrere degli anni. Con lui ci si trova di fronte a un uomo libero, complesso, coerente, coraggioso, non usuale, mai banale, fornito di un sentito e piacevole umorismo, gioviale, dal carattere aperto e dignitoso, incapace di odiare e di vendicarsi, religioso nel suo laicismo, contrario alla guerra e alla “falsa coscienza religiosa”, convinto antifascista, aderente al socialismo umanitario,particolarmente attivo sul piano politico e sociale, tanto da collocarsi, per molti versi, tra i protagonisti della storia di Bojano nel ventennio fascista e negli anni successivi. Di Antonio Renato dà questa presentazione: “Mio padre, alto circa m. 1.80, slanciato, imponente e signorile nel portamento, ritenuto un bell’uomo ai suoi tempi, è stato un irriducibile idealista, di una profonda umanità, strenue difensore disinteressato dei diritti delle persone e dei poveri e dei bisognosi in particolare. Osava affrontare a viso aperto con coraggio (come aveva fatto, del resto, suo padre Nicola, senza badare alle conseguenze per sé e per la sua famiglia) i nemici del popolo e della cosa pubblica […]. Questo aspetto caparbio della sua personalità, che io purtroppo ho compreso solo nella mia tarda età, che tante sofferenze economiche, sociali e morali ha arrecato alla famiglia, che penso non ne abbia mai capito adeguatamente il motivato significato e valore ideale, acquista una valenza particolare che solo ora riesco a vagliare opportunamente, in considerazione dell’ambiente in cui ho trascorso la mia esistenza. I suoi sentimenti e la sua voce non si sono fatti mai intimidire dalla confusione, dalla superficialità, dalle ipocrisie, dalle reticenze e dal fanatismo del costume diffuso prima, durante e dopo il ventennio fascista […]. Non si è mai arreso pur nella convinzione di essere solo, considerato socialmente e culturalmente inferiore e pericoloso. Per questo ora vado pensando che il suo atteggiamento sia stato anche, in un certo modo, una forma di eroismo, in considerazione delle sue convinzioni e della coerenza con cui le ha sostenute fino alla morte, con una coscienza civile vigile, dati i tempi in cui l’arte del mimetizzarsi e di non palesare le proprie opinioni era un luogo comune della quasi totalità dei benpensanti”. Che cosa aggiungere se non riportare alcuni avvenimenti della vita di Antonio Risi, attingendo dal profilo biografico che ne traccia Renato? Antonio nasce a Bojano il 19 novembre 1892 da Nicola e da Pasqualina Manna. Il padre è originario di Fisciano, paese della provincia di Salerno; è un bravo ramaio e dalle sue abili mani escono caldaie, tine, tegami di vario tipo e altro. La sua bottega, situata in via Cavallerizza, assume, tra l’altro, un ruolo rilevante nell’infanzia di suo nipote Renato, perché per questi è il primo contatto con ciò che è all’esterno della propria abitazione. La descrizione che nel suo primo scritto Risi dà delle macchine, dei prodotti e del modo di fare degli uomini è dettagliata al punto che le sue parole costituiscono un vero e proprio documento da utilizzare in un eventuale studio sulla cultura materiale di Bojano. “La bottega – dice Renato nel farci da guida in una realtà ormai scomparsa – è stata la mia prima finestra sul mondo. Il parlare conciso e perentorio, l’esecuzione ligia, la disciplina, l’attenzione, la pazienza, la costanza, il gusto e il senso estetico evidenziati nel lavoro, le varie fasi della rifinitura delle caldaie e dei vari oggetti di rame, il mantice col fuoco e l’uso dell’acido muriatico, espressioni di potenza creatrice e di terribile pericolo, il martellare continuo per rifinire il rame sui paletti allineati nel fondaco o, quando il tempo permetteva, davanti al portone di casa, il via vai degli acquirenti che, specialmente nei giorni di mercato del sabato, si accalcavano nella bottega e si accaloravano mercanteggiando, il piccolo caldaio pieno di soldi ricavati dalla vendita, tutto tra realtà e fantasia che si mescolavano e si stratificavano nella memoria vergine, costituivano una esperienza straordinaria. Era un mondo diverso da quello affettuoso e ovattato familiare, nel quale arrogantemente si accalcavano tipi dai temperamenti più disparati, a volte piacevoli di un umorismo nuovo, altre volte minacciosi, strani e paurosi, nei modi arroganti e raramente gentili, che talora venivano a turbare i beati e tranquilli sogni infantili”. La bottega di mastro Nicola è importante anche per Antonio, che frequenta la scuola fino al compimento del ciclo delle elementari, preferendo poi provvedere alla propria formazione da autodidatta, privilegiando il “saper fare”.
Antonio Risi raggiunta l’età per svolgere il servizio militare partecipa alla campagna di Libia in qualità di autista del comando italiano. In terra libica fraternizza con gli arabi, dai quali apprende l’arte e la tecnica della lavorazione e della cesellatura dei metalli. Prende parte alla battaglia di Derna, salvandosi fortuitamente dalla carneficina in quanto è spinto in un burrone da un bojanese suo commilitone.
E’ il primo, insieme al fratello Filippo, a conseguire nel Molise la patente di guida, tanto da essere premiato successivamente dall’Automobil Club di Campobasso con medaglia d’oro. A Bojano apre una officina meccanica e diventa titolare dell’unica pompa di benzina allora esistente nella città bifernina. E’ proprietario di un’automobile e di un camion, per l’epoca cosa rimarchevole. Il 30 ottobre 1922 sposa a Baranello Bianca Turchi, toscana di Vicopisano, che conosce a Monteverde. Sin da giovane s’interessa dei problemi di Bojano e dal 1921 al 1926 è componente del consiglio comunale. Si schiera a favore dei deboli e dei bisognosi e cerca di promuovere il miglioramento della società, che ritiene debba basarsi sulla giustizia, sui principi morali, sulla fratellanza cristiana e su un socialismo dal volto umano. “Da convinto socialista – scrive Renato – condivise inizialmente, come del resto fecero tante chiare personalità italiane, il rinnovamento sociale dell’allora socialista Benito Mussolini, anteriormente al delitto Matteotti del 10 giugno 1924”, poi, però, Antonio Risi diventa un fervente antifascista per tutta la vita, subendo persecuzioni e il carcere, mettendo in pericolo per le sue idee anche la propria famiglia.
Nella primavera del 1942 nella sua casa è prelevato dalla polizia segreta fascista, ammanettato e tradotto nel carcere di massima sicurezza di Campobasso, dove è posto in isolamento perché accusato di essere un pericoloso sovversivo e di aver parlato male di Mussolini e della guerra di fronte a un folto gruppo di bojanesi nel caffè Parente, a poca distanza dalla sede del partito fascista. In carcere resta una settimana e ne esce grazie all’intervento presso il prefetto dell’avvocato Vito Amaro, suo cognato. La pena da detenzione è trasformata in obbligo di vivere confinato a Bojano. Nonostante ciò, “testardo come un mulo”, continua la sua azione di propaganda antifascista e nell’abitazione dei cognati Olimpio e Peppino Ritota, che gestiscono insieme alle mogli, Angiolina e Filomena, un negozio di alimentari e un moderno forno a legna, organizza l’ascolto nottetempo di Radio Monteceneri e di Radio Londra. In tal modo può seguire le effettive vicende della Seconda guerra mondiale e le operazioni dei partigiani, ai quali rimane collegato pure dopo la liberazione di Bojano, in particolare con Sandro Pertini.
L’approvazione della mozione Grandi al Gran Consiglio del Partito nazionale fascista, il 24 luglio 1943, e la conseguente caduta di Mussolini rinvigoriscono la sua lotta e con un’ascia, arrampicato su una scala, tra lo stupore e la paura dei presenti, demolisce l’emblema del fascio posto in alto sulla facciata del Municipio, “accompagnando i colpi di una pesante mazzola con vivaci espressioni di soddisfazione”. I familiari non riescono a dissuaderlo e da allora capiscono “di essere passati dal controllo sospetto e dall’isolamento all’essere braccati, anche nel timore di essere passati per le armi o di essere deportati in Germania”.
La situazione si aggrava con i bombardamenti che subisce Bojano il 10 settembre del 1943. Renato ricorda che il padre in tale occasione improvvisa un discorso ad alta voce in piazza Roma e si scaglia contro i sostenitori della belligeranza, imprecando: “Maledetti fascisti! Questi sono i frutti della vostra guerra!”. Grave e foriero di preoccupazioni è quello che si verifica pochi giorni dopo la distruzione dell’emblema del fascismo. Accade che in piazza Roma si ha uno conflitto a fuoco tra soldati tedeschi e alcuni avieri italiani rifiutatisi di consegnare le armi. Guarda caso essi trovano salvezza e riparo proprio nell’abitazione dei Risi. Per rappresaglia un gruppo di tedeschi con le mitragliatrici spianate si reca sulla Piaggia, dove intanto la famiglia di Renato si è rifugiata, precisamente nella vecchia casa di “Cacauoi”. Tutti sono presi dalla sgomento. Antonio insieme all’ingegnere Pietrangelo Velardo, suo amico, allarmato pensa di organizzare una imboscata, ma a un certo punto i soldati si fermano e tornano indietro. Quando il fronte della guerra coinvolge Bojano e la famiglia Risi è costretta a fuggire sul Matese, Antonio, avuto notizie che le truppe canadesi avevano liberato Guardiaregia non esita a recarsi a piedi tra i monti in quella località per salutare i liberatori e per fornire loro informazioni circa il distaccamento delle batterie anticarro tedesche nella zona di Colle d’Anchise.
Nell’autunno del 1943, con l’occupazione di Bojano, gli alleati costituiscono una nuova amministrazione comunale, chiamando Antonio Risi a farne parte, quale noto antifascista. Contestualmente è formato un comitato preposto all’epurazione dei gerarchi fascisti locali. Antonio, nonostante quanto subito a causa loro, li difende tutti sostenendo che non avevano commesso particolari reati. Renato ricorda che davanti al padre, per ringraziarlo, si presenta un gerarca di Bojano, che inginocchiandosi dice, quasi piangendo: “grazie Antonio per quello che hai fatto per me! Io ti ho arrecato tanto male e tu, invece di vendicarti, mi difendi ora… ti chiedo perdono”. Renato prosegue: “noi che assistemmo alla scena, specie quando mio padre amichevolmente lo invitò ad alzarsi, schernendosi e tranquillizzandolo e quasi abbracciandolo, rimanemmo sconcertati, commossi e turbati, ripensando a quanto avevamo sofferto durante il ventennio”.
Con l’avvicinarsi del Natale, mentre la popolazione bojanese patisce la miseria e addirittura la fame a causa del fronte bellico, Antonio Risi, in qualità di componente della nuova amministrazione comunale si adopera concretamente per la riattivazione del pastificio Bernardo e per le festività natalizie fa distribuire a ogni famiglia un chilo di maccheroni oltre a una certa quantità di sale, che con un autocarro militare personalmente va a prendere alle saline di Margherita di Savoia, in Puglia. Renato nel suo scritto ci tiene a sottolineare l’amore del padre per Bojano, anche a rischio di pericolose avventure. Per dimostrarlo cita alcuni episodi, quali: il reperimento dei fondi per l’installazione, nell’immediato dopoguerra, per motivi igienici di un vespasiano in piazza Roma; l’incitamento rivolto alla popolazione affinché si opponesse al trasferimento della sede vescovile da Bojano a Campobasso; il prolungamento a proprie spese, vista la reticenza dell’amministrazione comunale, della rete idrica da corso Amatuzio a via Barcellona, necessaria, tra l’altro, per il funzionamento del caseificio di Francesco Perrella; l’attività di volontario svolta nel 1919 in occasione dell’epidemia spagnola, portando giornalmente in bicicletta all’ospedale “Antonio
Cardarelli” di Campobasso i campioni da analizzare, incurante del grave pericolo che correva. La condanna a morte e la fucilazione di Mussolini il 28 aprile 1945 reca alla famiglia Risi un particolare senso di liberazione, però, annota Renato: “Ma quanti altri problemi per il mio povero padre. La lotta al fascismo continuava, tra infinite traversie e rancori profondi dei delusi e dei perdenti. Continuava proiettandosi nell’aspro conflitto del referendum tra monarchia e repubblica, tra la responsabilità del re che aveva sostenuto il duce e il propugnato rinnovamento promosso dagli antifascisti”. Antonio Risi trasforma la propria casa “in un vero e proprio cantiere e punto di riferimento pro-repubblica”, dove si parla di politica, della necessità di sconfiggere la monarchia, ritenuta corresponsabile delle malefatte del fascismo, si preparano manualmente i manifesti e si appronta l’occorrente per andarli ad affiggere nelle ore notturne. “I mezzi – rileva Renato – comunque erano inadeguati e ridotti, di contro a quelli della propaganda monarchico-fascista, che disponeva di lauti fondi. Ancora una volta la lotta politica si risolveva tra poveri e ricchi. Ma questa consapevolezza finiva per moltiplicare le forze a noi memori della indefessa sofferta battaglia del recente passato”. A trionfare sono i repubblicani e Antonio Risi, inorgoglito, marcia in prima fila insieme a un piccolo gruppo di bojanesi che festeggiano la proclamazione della Repubblica italiana.
Durante la campagna referendaria dai filo-monarchici è diffusa artatamente la voce che nel fronte monarchico vi sono i cattolici e in quello contrapposto i miscredenti e i comunisti. A essere ritenuto comunista è lo stesso Antonio Risi. Amareggiato, perché anticomunista e mai filosovietico, sente la necessità di un chiarimento, che dura fino alla morte, tra il socialismo umanitario, da lui costantemente sostenuto, e la dottrina sociale del cattolicesimo. Antonio confronta e avvalora i propri principi “diffondendo, passo passo, a seconda delle occasioni e problematiche, l’Enciclica Quadragesimo anno di Pio XI edita il 15 maggio 1931, il cui volumetto portava sempre con sé, mostrandolo ai suoi interlocutori che spesso rimanevano meravigliati e talvolta disorientati, di contro alla diffusione della propaganda corrente”. Antonio Risi muore a Isernia, nell’ospedale “Ferdinando Veneziale”, nel 1981. Termino questa veloce escursione nella vita di un personaggio di Bojano – dinamico e dalla forte personalità – con l’auspicio che Renato Risi riprenda in mano i suoi scritti per una loro non lontana pubblicazione, dato che la storia della “casa di via Cavallerizza” merita di essere conosciuta.
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